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Muore dopo aver contratto New Delhi e Covid in ospedale: il suo diario su Facebook

Livorno: giorno dopo giorno Giovanni Mesini, 68 anni, ha raccontato il suo calvario durante il ricovero

Reparto Covid

Livorno, 15 gennaio - Un paziente di 68 anni, Giovanni Mesini, è morto all'ospedale di Livorno dopo aver contratto in corsia il superbatterio New Delhi e poi anche il Covid, ma fino all'ultimo ha tenuto un diario della degenza segnalando gli incontri col batterio super-resistente, poi col Coronavirus e pure rapporti non facili con la struttura.

È morto la sera del 13 gennaio. Alcune ore prima di spirare ha scritto rivolgendosi a familiari e amici: «Se crepo, cercate tutti di vederci chiaro, eh?». Lo avevano ricoverato il 14 dicembre dopo un controllo al pronto soccorso per un dolore a una gamba (aveva un'occlusione arteriosa), poi gli è stata diagnosticata una polmonite ma non causata dal Covid. In seguito complicazioni e peggioramenti continui fino al decesso.

Nel diario in ospedale Giovanni Mesini percorre tutte le tappe della malattia. Dall'iniziale fiducia del 14 dicembre - «fortunatamente - scriveva - il tampone Covid è risultato negativo, la prudenza esercitata è servita a qualcosa» - alla ripresa sotto Natale (il 23 dicembre si legge «lento ritorno alla normalità, si vede la luce»). Ma poi gli diagnosticano il batterio super-resistente agli antibiotici New Delhi e il 6 gennaio scrive: «Bene, adesso dopo il batterio intestinale, sono positivo al Covid. Tante precauzioni quando ero fuori per poi beccarmelo in questo ospedale». Il 9 gennaio evidenzia che nel reparto «l'igienizzazione viene fatta all'antica», «aprendo un pò le finestre», «alle 11 sono aperte dalla nottata» e qui «fa un discreto freddo. Chissà se lo sanno che c'è un bischero che cerca di uscire da una polmonite o che ha solo un batterio iper resistente ed è positivo al Coronavirus».

L'11 gennaio «la situazione precipita. Senza respiratore difficilmente andrei avanti. L'ossigenazione è ai limiti ed è in peggioramento. Non è difficile la scommessa sull'esito finale. Pazienza. I miglioramenti delle settimane scorse mi avevano riconciliato con la vita. Ora si contano i giorni». Verso la fine Mesini denuncia problemi con la struttura. Racconta di aver chiamato i carabinieri per un respiratore che non funzionava. La notte del 13, ore 3, il diario registra: «Devo fare pipì e suono il campanello. Non viene nessuno e l'ossigenazione inizia a calare veloce. Alzo la mascherina e strillo 'infermierè, arriva l'infermiera inc..a, dà un'occhiata al saturimetro e una al respiratore e - solerte - sistema tutto senza risparmiare una lavata di capo a me che, volendo inizialmente solo fare pipì, mi sono adeguato agli eventi. Questo tacitare il paziente senza ascoltarlo non so quanto sia corretto». Alle 15.57 si legge: «Si stacca la sonda del saturimetro. Tento due volte la riparazione, suono. Arriva l'infermiera. Sono occluso dal ventilatore e non posso urlare. Mi fa parlare a vuoto.

Si avvicina, capisce la richiesta, promette soluzione che in 40 minuti non c'è. Anziché tranquillizzare chi sta patendo un virus mortale possono fare meglio». Alle 16.44, una specie di appello: «E' il cinismo degli italiani brava gente», scrive sull'episodio precedente. «Stiano attenti che magari non sia la vittima a farla pagare al carnefice. Se crepo cercate tutti di vederci chiaro, eh?». È l'ultimo messaggio alla famiglia e agli amici.